Istanze Trascendenti - Maurizio Romani

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Istanze Trascendenti

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IL TEMPO DELLA PIENEZZA
L’ESPERIENZA DEL SACRO NELLA PITTURA
DI MAURIZIO ROMANI


Maria Cristina Ricciardi

Maurizio Romani è un eccellente pittore di nature morte e di paesaggi che portano in sé il segno di una anomalia, di qualcosa di astruso che in natura non esiste e che, come in certi giochi di enigmistica, non si lascia scoprire subito. Bisogna fermarsi e osservarli i suoi lavori, e ritornarci più volte con lo sguardo. Quasi una provocazione che l’artista ci lancia in questi tempi così tanto frenetici. Gli istanti necessari alla decelerazione, alla sospensione cronologica, si connotano ancora  con maggiore  intensità  nei suoi dipinti di meditazione sacra, carichi di un misticismo che non deriva solo dalla forza della rappresentazione ma da quella profonda tensione  tra la realtà evidenziata dalle sue immagini e l’illusione che ne consegue in termini di inattendibilità. Ma dove si elude la vita, tra le apparenze  del mondo o sulla tela? In realtà non è solo in questi recenti lavori che Romani realizza il proprio sentimento del Sacro, perché nella sua pittura, come nei suoi intensi disegni  o nelle incisioni che egli esegue con capzioso scrupolo, tutto è sacro: ciò che è dentro il tempo e ciò che ne sta fuori. E l’uomo ne è il cardine e la  soglia, quel limen che è insieme ingresso e confine, territorio di precari equilibrismi, allorquando, delle condizioni invisibili, egli  ricerca i segnali e li aspetta, affinché si compia questo continuo manifestarsi del Mistero, così complementare alle vicende della materia. In fondo viviamo sempre in una perenne attesa di annunciazione mi ha detto Maurizio, precisandomi il senso delle sue finestre pittoriche, in una delle nostre conversazioni nella sua casa di Giulianova, avamposto di un”ritorno alle origini”, essendo nato in Emilia da genitori abruzzesi, il papà di Campli e la mamma di Sant Egidio alla Vibrata. E mi viene  in mente quanto sosteneva quel  rinnovatore del cattolicesimo, che è stato  David Maria Turoldo, “coscienza inquieta della Chiesa”, quando riteneva che i suoi fossero tempi di grande spettacolo, di grandi parate, ma di poche verità, tempi di apparenze più che di apparizioni.

Maurizio Romani, con questo ultimo ed impegnativo ciclo di opere, di  grande dimensione, ci regala il piacere e la sorpresa di un “accadimento”, di qualcosa che improvvisamente entra nella nostra vita, e la riconfigura, aprendoci ad una visione  più vasta che salda la nostra storia individuale ad un disegno più grande, ad una complessità che tutti noi ci troviamo a condividere. Il tema dell’ ”apparizione” si palesa attraverso la rappresentazione di una  finestra, ritagliata nella luce di un paesaggio che è anche la “stanza” che l’artista, con spiazzamento immaginativo,  struttura tra la veduta aerea ed il  fondale  di una scenografia che è  teatro del mondo. La finestra  –  che trova nell’arte la sua straordinaria metafora – è aperta sull’irrealtà di spazi non possibili alla nostra vista, varchi  segnati dalla presenza di creature non carnali, fatte solo  di aria e di luce, depositarie di un  annuncio che risponde alle nostra ansia di segnali.  Gli angeli di Maurizio Romani possono presentarsi  come presenza ”povera”, fatta di assi  sconnesse, inchiodate insieme, a formare una rozza sagoma,  materia bruta del mondo, oppure si palesano saturi di un bianco totale che non è  colore ma lo schermo su cui tutti i colori possono proiettarsi. Nel suo Trattato sulla Pittura,  Leonardo da Vinci si legge a tal proposito: Adunque tal bianco essendo privato del lume del sole per interposizione di qualche obietto inframmesso fra il sole ed esso bianco, resta tutto il bianco, che vede il sole e l'aria partecipante del colore del sole e dell'aria, e quella parte che non è veduta dal sole resta ombrosa partecipante del colore dell'aria; e se tal bianco non vedesse la verdura della campagna insino all'orizzonte, né ancora vedesse la bianchezza di tale orizzonte, senza dubbio esso bianco parrebbe essere del semplice colore del quale si mostra essere l'aria. E il colore dell’aria ci riporta nuovamente, come in un gioco a ritroso, al tema del varco attraverso cui l’Annuncio arriva a noi. E’ Leon Battista Alberti a cogliere tra i primi,  nell’immagine della finestra, il luogo dei capovolgimenti, coniando la metafore della cornice come collegamento tra uno spazio astratto, che pure ci appartiene, e l’ambiente dell’uomo, territorio delle cose fisiche e tangibili quanto di quelle che non lo sono , come le emozioni, i sentimenti, i pensieri. Qual è allora l’esterno e quali gli spazi interni? Entrambi possibili nell’ambiguità travalicante dei ruoli che Maurizio Romani mette sonoramente in luce, dove è l’irrealtà stessa ad aprirci il passaggio verso l’Assoluto. Ma il senso di una purificazione tanto attesa, può a volte passare anche da un'altra “finestra”, che è quella rappresentata dalla croce, stipes e patibulum, il TAU con cui il pittore condivide il suo martirio di corpo ferito e segnato, partecipe al dolore del mondo. Tale  coscienza è il prezzo dell’ accesso al riscatto, perché dallo strazio della carne l’uomo impari ogni giorno che tutto è parte di una sola natura e di un unico tempo riassumibile  nella dimensione dell’attesa. Sul piano del linguaggio, un ruolo essenziale gioca la luce, pittorica nitida ed intensa, di matrice purista, tutta mentale, come egli ha compreso dall’incontro con l’amico pittore Randall Morgan, incontro fondamentale alla sua crescita quanto quello con  critici De Micheli, Zeri e Micacchi, o quello, a ritroso nel tempo, con la sua vita da studente nel convento dei frati cappuccini di Parma, con cui visita le città d’arte e conosce le opere dei  grandi maestri italiani del Trecento, soprattutto Giotto, Simone Martini e Pietro Lorenzetti. Qui ha la fortuna di  incontrare Padre Graziano Arvedo Bertini, allievo del pittore reggiano Augusto Mussini, che lo inizia alla  pratica faticosa del disegno - un intero anno e mezzo senza mai toccare i colori - a tracciare figure sulla bianca carta da pacchi. Un’attesa – impensabile per le odierne generazioni di artisti -  vissuta con grande intensità, insieme alla conoscenza dei tanti mestieri che i frati portavano avanti nella pratica dell’autosussistenza.  Da qui l’esperienza del lavoro, non solo come elemento fondante della dignità umana, ma come dimensione antropologica che si compie  attraverso l’azione delle mani. Un “fare” che per Romani trova il suo punto di qualità nella conoscenza e nell’ esperienza della tecnica artistica  - pratica da cui egli sa bene che non si può prescindere -   che da  vita alle forme, le determina, e che pertanto, assumendo una valenza estetica, può essere considerata parte costitutiva del processo artistico. Un processo artistico  che non esiste   senza la capacità tecnica del pittore, che è mano e mente, azione e pensiero, come ci insegna il grande storico francese Henri Focillon che riconosce  nel valore formale la summa  di tutto questo, ritenendo che  la sua autodeterminazione  è forma e la sua liberazione è sempre e immediatamente in una forma. Sia il visibile che il non visibile rientrano in questa pienezza formale, in questa compiutezza in cui risiedono tutte le vite, le gioie, i dolori, tutte le diversità, la nostra soggettività come il senso dell’altrui esistere. Questo tempo della pienezza ci è proposto da Maurizio Romani con una scrittura pittorica e immaginativa riccamente intessuta da riferimenti simbolici, come la figura che ripiegata su di sé  simboleggia l’idea della meditazione,  rimandandoci  al celeberrimo Newton del pittore inglese William Blake. Ma se nella pittura visionaria del Settecento, il fantastico era la provocazione lanciata contro il  limite della razionalità illuminista, oggi non è più l’elemento immaginario a trasformare la realtà,  già trasfigurata da mostri in carne ed ossa che, sempre più spesso , hanno la faccia del “vicino di casa”. La rosa rossa, simbolo dell’amore eterno, non può non restarne vinta e schiacciata; altrove  compare la rosa bianca, simbolo di un amore puro, di quanti si sono fatti invisibili aiutanti dell’umanità (corre il richiamo l’omonimo movimento antinazista attivo durante la seconda guerra mondiale Die Weiße Rose);  il limone, allusivo alla felicità, “pomo d’oro” del giardino delle Esperidi; il melograno, che richiama la ricchezza, la Passione e la Resurrezione: la tovaglia bianca, metafora dell’altare; il deserto, luogo  che nell’Antico Testamento è la terra che incute paura, quella destinata ad accogliere i momenti fondanti della storia del popolo ebraico, metafora del silenzio e della solitudine, unico luogo dove può raccogliersi e formarsi il popolo di Dio.  Una tale ricchezza di lessico espressivo, di vocabolario stilistico, unitamente alla  profondità di visione, conferiscono alla pittura di Maurizio Romani tutto il fascino di una figurazione  altamente poetica  che sa aprirsi  sul mondo, per regalarci la cognizione di un unico universo, soprannaturale  e reale, senza confini.


 
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