Essenze ed Epifanie Spirituali - Maurizio Romani

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Essenze ed Epifanie Spirituali

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A cura di Floriano De Santi

ESSENZE ED EPIFANIE SPIRITUALI
NELL’ARTE DI MAURIZIO ROMANI

I
La separazione tra arte di storia (idest sacra) e arte di genere, come viene posta da Jean-Francois Lyotard ne La condition postmoderne, corrisponde a quella tra arte d'immaginazione e arte senza immaginazione. Tutta l'arte è imitazione: ma l'imitatio della realtà come dovrebbe essere o si vorrebbe che fosse, richiede un "esercizio dell'ingegno", il ripristino della realtà com'è richiede soltanto una praxis, una tecnica. Le due tendenze nel recente ciclo di opere sacre di Maurizio Romani, coesistono: corrispondendo grosso modo a diverse fonti culturali, ma nel riconoscimento che tra esse v'è una relazione dialettica e che solo dal loro rapporto può formarsi un linguaggio originale.   Della mera restaurazione del dato già la poetica aristotelica offriva una soluzione plausibile: I'uomo è incline naturalmente a imitare perchè imitando conosce.  I prodotti della mimesi danno piacere dipendentemente dal riconoscimento dell'oggetto; poichè però, se non si conosce l'oggetto, si prova ugualmente piacere, esso discende dalla giustezza della scala cromatica, dell'esecuzione. In tal caso, evidentemente, la causa del piacere è il processo, il metodo, la tékhne dell'imitazione. La pittura di Romani di qualche anno fa - da Luce e colore del '95 a Fiori appassiti nel bicchiere del '97 - sviluppava tutta la casistica dell'imitazione. C'era una raffigurazione minuziosa e precisa fino all'inganno ottico: le lanterne rossastre degli alchechengi, un bocciolo di cardo, un cespo di viole, la superficie trasparente di un vasetto di vetro. Il piacere era dato dal fatto che quei fiori, quelle foglie, quegli oggetti non erano veri ma figurati; quindi si ammetteva che la mente dell'artista potesse avere percezioni chiare e distinte e che per lui la pittura rappresentasse il maximum di questa facoltà.
Ora, nella nuova suite pittorica, ricorrono figurazioni meno minuziose e precise che vengono talvolta disegnate una accanto all'altra per certe loro affinità formali, o di colore, mutanti il criterio dell'affinità dalla similitudine alla varietà. Del resto, nella produzione delle opere sacre del Romani, due opposte concezioni della realtà - per dirla con Panofsky, una universalistica e una nominalistica - sembrano contendersi il campo, proponendo rispettivamente il valore essenziale e primario dello spazio oppure della figura. Ma entrambe le concezioni mantengono intatta la loro "precisione". Assunte ormai al cielo fantastico delle apparizioni, sono infatti se stesse e i loro fantasmi colorati; sono oggetti ed essenze, schegge di natura ed epifanie dello spirito. In Anatomia per una Crocifissione del '97 e in Angelo che si guarda allo specchio del '99 vi sono figure che fanno lo spazio, definendo con i gesti o col movimento delle masse policrome direzioni prospettiche; intorno ad esse l'ambiente è necessariamente generico, si limita a diffondere o a ripercuotere all'infinito il nucleo plastico-spaziale delle figure. Altre volte, le figure dell'Annunciazione del '97 e di Visita della sera del '99 sono nello spazio esposte all'incidenza della luce, al variare delle circostanze ambientali. Ma allora lo spazio non può più essere un'astrazione materica o tattile ed è fatto di frammenti anatomici concreti: il valore della figura è definito dal suo rapporto con la parete vicina, il cielo lontano, la figura contigua, la luce, I'ombra.

II.
La tavolozza di Romani, che nasce - scrive giustamente Pietro Zampetti - "da un dialogo e da un confronto tra mondo reale e mondo delle idee", estrae lentamente ogni segno pittorico dallo spazio remoto ed oscuro: come se gli atomi di luce sospesi nell'aria fosca venissero a posarsi sullo schermo invisibile di una muta presenza umana. La silhouette arriva sempre da lontano, dalle profondità dello spazio e del tempo, si ferma alla soglia del presente, senza varcarla: ogni momento della sua esperienza lascia una traccia, distrugge qualcosa.
 Al pari di Soutine, I'esperienza romaniana non si limita a rifare o disfare l'esistente, ma lo consuma: I'immagine di un essere umano, il Cristo in terra, non possono che consegnarci la storia di questa lunga consunzione del mondo. Non per nulla l'artista emiliano predilige la figura di vecchi; quando dipinge il ritratto di Gesù segna il volto del giovane con le rughe di una vecchiaia precoce (Il Profeta del '98 ed Ecco il Vostro Re del 1999-2000). Il suo mondo è il vissuto, la Erlebnis; i suoi personaggi sono già usciti dalla vita sociale, sono antichi come patriarchi biblici, appartenendo già alla dimensione di una storia che è dispersione, confusione, penombra.
Più ancora di Soutine, era Munch che aveva scoperto l'orrore, non più giustificandolo con una natura della morte che non è più transito ma, semplicemente, uscita dal mondo dei viventi, fine. Per Romani la morte è la quotidiana consumazione della vita, il nostro patire e distruggerci nell'attrito con gli altri, il giungere infine a una condizione di solitudine. E questo, infatti, della desolata solitudine dell'Uomo/Dio tra gli uomini, è il tema dominante della sua opera sacra. Il risolversi dell'Uno, dell'io in tutti, nella società; il risolversi di tutti, della società nella vita dell'uno, dell'Es: questo è il dilemma che infine affiora nei suoi numerosi "studi" della Crocifissione. Dalla malinconia ispirata di Munch, Soutine sviluppa il suo umore panico e satiresco, Romani la disperazione, la sua angoscia religiosa. Tutto ciò che sorge dalla terra si protende con stenti, dolorosamente nell'attesa di una ragione di sofferenza, di passione; ma rimarrà sospeso con quell'ansia, perchè la causa del patire - ha ricordato Spinoza - è interna e non si conosce. Cosi ogni cosa vibra nella luce; ma la luce non viene fuori, emana dal dentro, è il segno visibile, non la causa, di questa sensibilità acuita fino allo spasimo.
La luminosità di Volsero lo sguardo verso colui che avevano Crocifisso del '97, di Cristo morente del '98 e di Crocifissione dell'anno appresso, nasce dai segni scritti dal pennello e, nei disegni e nelle acqueforti, dalla diversa frequenza dei tratti neri  sul bianco della carta: non è una luce che arrivi dallo spazio, è una luce che lo cerca. E' possibile che la natura consenta a una tale attesa di sofferenza di prolungarsi, di tendersi ancora di più, con un solo e ultimo, livido raggio che lambisce il volto distrutto e straziato del Cristo. Ma qui il sentimento, il pathos, non è gesto, movimento, azione, piuttosto una concentrazione di lancinanti convulsioni in tutto lo spazio. La rappresentazione è ridotta al minimo per intensificare la sollecitazione, lo stimolo spirituale.

III
L'ispirazione notturna di Romani, quasi una novalisiana Einfall, scorre nascosta, mandando solo segnali molto mediati, emergendo a tratti. S'intensifica - ad esempio - nei bruni violenti e fondi di Fuga nel deserto e Crocifissione notturna, due operine su carta del '97, che sembrano fatti di nulla, con parole che affondano nel verso sacro, con quella luce che non si vede ma è l'ordito di una trama sottile, di cenere invece che di seta. La loro magia sta in una rappresentazione né minuta né sommaria, che non è mai allusiva, ma sempre d'estrema pregnanza: un'immagine materializzata, quasi fosse recata da un ectoplasma solido, unica certezza disperata.
Sono dipinti struggenti, né antichi né moderni, ma sempre attuali, sempre all'erta della memoria: dimostrano la decantazione che ha subito - proprio con questo ciclo di opere sacre - la Koiné artistica di Romani al di là di certe apparenze vistose, sempre più orientandosi verso un realismo magico in cui le cose raffigurate sono come le parole di un incantesimo che significano e non significano, ma quasi evocano e tengono a distanza come talismani. Sennonché, le notti di Romani non sono solo ottembramento, cortine dell'horror vacui, spazi paurosi. Esse accolgono luci, respiri, movimenti, rumori, riflessi vaghi, una vita in palpito sotto la quiete che affastella il mondo.  In un trittico, Angeli che annunciano il Cristo del '97, e nell’Angelo che vola del '99, I'artista "costruisce" un'opera di pittura con una materia che sembra l'abolizione dei colori, ma che invece li contiene in potenza, come la notte nel suo grembo, così da variare grandemente e apparire vellutata, serica, opaca, granulosa leggera, densa, metafisica a seconda che si tratti di una tela, di una tavola, di una carta vetrata o di un cartoncino. Però nel San Giovanni Nepumoceno del '97, opera di materia drammatica ed eccitante, il bruno è quasi totale, si distende in un forte spessore su tutta la scena, abolendo quasi lo spazio, mentre nel centro dove l'emergenza della materia è maggiore, I'immagine è tracciata da Felures profonde, veri solchi che si inabissano, come se la figura fosse una eruzione dagli arcani strati, o un calco in lava bollente.  Infine nelle opere sacre, Romani tenta una restauratio naturae parallela alla restauratio historiae: se la storia è sviluppo del tempo ed ha un prima, un presente e un poi, il solo sfondo della storia può essere la natura. Ma, poichè la storia è universale, la natura non può essere data nel particolare di un determinato sito in una determinata stagione e ora del giorno. Se poi l'impuiso che muove le azioni umane è il sentimento perchè il sentimento è la "naturalità" umana, la natura si fa l'origine dei sentimenti, delle azioni, della storia: è la prima causa da cui discendono tutti gli effetti.  Nelle Tre croci, un olio su carta di quest'ultimo anno, I'immagine si erge a sagoma chiara ritagliata su un fondo scuro, in cui soltanto l'ombra portata suggerisce una breve profondità; v'è senza dubbio un rapporto figura/spazio, ma è un rapporto di parità, senza resti. Lo spazio, insomma, non è tutto lo spazio, né una parte per il tutto: è esattamente lo spazio di quell'immagine, la condizione del suo porsi come realtà assoluta. In altre parole, Romani non coglie la realtà nel fenomeno, ma la realtà del fenomeno: del resto la coscienza non è separabile dal proprio oggetto o contenuto, nel momento in cui esso occupa la coscienza è tutta la realtà, che non può appena travedere senza speranza e senza angoscia.

           Floriano De Santi

 
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