Mostra A L’Aquila

Contro l’oblio dell’umano

Con i tre nuovi cicli di opere presentati a L’Aquila e profondamente intrecciati l’uno all’altro, Maurizio Romani mette in campo tutto il suo coraggio ed impegno etico, avendo ben chiaro che oggi gli artisti dovrebbero testimoniare, a beneficio di una nostra consapevolezza reattiva, quell’inesorabile perdita dell’umano che sempre più connota l’epoca del cosiddetto “capitalismo della sorveglianza”. Dotato di una tecnica sopraffina e di una visione poetica del mondo, come dimostrano le sue opere precedenti, ora Romani ha scelto di eliminare radicalmente qualsiasi facilità e piacevolezza, per tenersi al difficile sotto il segno di una necessità morale e dell’autenticità. Questa è la forza di Maurizio Romani: egli non si lascia mai dominare dalla notazione sociologica o antropologica, per quanto impressionante, ma cerca ossessivamente la verità emotiva ed esistenziale che si invera nella forma, intesa come presenza ineludibile e come testimonianza inevitabile.
Nella serie dedicata alle “donne del male” Romani fissa lo sguardo su quelle tedesche che, soprattutto nell’ambito dei campi di concentramento nazisti, svolsero il ruolo di carceriere e sadiche aguzzine, pur portando avanti una doppia vita che gli permetteva di essere al tempo stesso mogli e madri amorevoli. E’ noto, solo per fare un esempio, che Irma Grese (soprannominata la “Iena di Auschwitz” ma anche “ Bella Bestia” per la sua avvenenza, crudeltà e depravazione) dopo essere stata catturata dagli inglesi e portata a processo, fu seguita attentamente nelle aule di tribunale in ogni suo atto od espressione ed appariva, secondo le descrizioni, più come una modella della buona società che come una persona accusata di efferate torture e di perversi desideri sessuali. Il boia-capo britannico Albert Pierrepont ha scritto nelle sue memorie che, poco prima dell’impiccagione, Irma era “una ragazza così gradevole come quella che ognuno potrebbe sperare di incontrare”. Così come basta pensare a un film recente quale “La zona d’interesse” (2024), la storia di una famiglia tedesca apparentemente normale che vive in una paradisiaca casetta con piscina, in una quotidianità fatta di gite in barca, i piacevoli tè della moglie con le amiche, il ripetitivo lavoro amministrativo del padre, le domeniche passate a pescare al fiume. Ma l’uomo in questione è Rudolf Höss, comandante di Auschwitz, e la deliziosa villetta con giardino in cui vive con la sua famiglia in una paradossale serenità è situata proprio al confine con il campo di concentramento, a due passi dall’orrore e dall’inferno, mentre in sottofondo si sentono i rumori sinistri dei prigionieri che marciano legati e nel cielo si vedono inquietanti nuvole di cenere. Anche in questo caso la normalità convive senza problemi con l’abiezione e la violenza più spietate. Così la sensibilità di Romani lo ha portato proprio, come un acrobata, a muoversi sul filo che separa l’apparenza normale e quasi banale dei volti, alcuni dei quali peraltro quasi “belli”, da una sorta di oscura alterazione comportamentale dietro la quale si aprono abissi senza fondo, che in qualche modo riusciamo a percepire, come se quei visi recassero un’ombra luciferina e, in fondo, una maschera che nasconde la loro vera natura. E nelle espressioni di queste donne dalla doppia anima l’artista è riuscito a rendere quella freddezza glaciale, quel vuoto interiore e quella mancanza d’empatia che molti testimoni ravvisarono nei volti dei nazisti sottoposti al primo processo di Norimberga. E’ “La banalità del male” di cui ha scritto Hannah Arendt: “Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso”. Ed è proprio questo che Romani riesce, col suo segno chirurgico eppur evocativo e introspettivo, a rendere in questi venti ritratti che testimoniano la coesistenza paradossale ma reale fra banale normalità e violenza sconfinata. Una convivenza che va anche al di là dell’orribile passato nazista, che tuttora esiste e prospera magari a pochi passi da noi, allarmandoci perché indica la vittoria dell’inumano rispetto all’umano.
Se il genocidio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale è ben conosciuto e documentato, molto meno noto è quello dei pazienti psichiatrici soppressi dai nazisti, fra cui le “donne del male”, con numeri che si avvicinano solo per questo ambito a quasi trecentomila vittime. Senza sapere se Maurizio Romani abbia pensato o meno a questo legame, non ho potuto fare a meno di rifletterci guardando gli straordinari volti di donne e uomini colpiti dal disagio mentale che il nostro artista ha sorprendentemente dipinto con una intensità e una misura stilistica e cromatica che hanno pochi paragoni nella storia dell’arte, fra cui il più noto potrebbe essere quello con gli alienati dipinti da Gericault ad inizio ottocento. Ebbene, mettendo al servizio della penetrazione introspettiva il suo talento pittorico, Romani, quasi lombrosianamente, è al tempo stesso chirurgo e psichiatra del pennello, riuscendo a dare immagine perfino alla mutevolezza continua di volti sottoposti a chissà quali immani, indicibili pressioni psichiche, spingendo al limite della scomparsa intere parti di visi come avviene in alcuni pazienti per la memoria che salta ad interi blocchi, improvvisamente, dall’oggi al domani. E’ una fisiognomica del dolore e del disagio che troppo spesso nella nostra società viene evitata e nascosta con fastidio e vergogna, tanto che questi volti finiscono col dare immagine anche alla nostra cattiva coscienza fondata sul culto dell’efficienza produttiva, del pragmatismo levigato e senza difetti, dell’indifferenza sempre più glaciale. Talvolta Romani dipinge su una garza poi applicata su tela e la sua texture più larga gli fa raggiungere una sorta di drammatica vitalità organica dei volti che si unisce ad uno sfumato metamorfico. A chi, come molti di noi, non vorrebbe vedere questi ritratti della sofferenza e spesso dell’emarginazione, sperando magari che affondino nel buio, il nostro artista risponde portando alla luce una verità rimossa, scomoda ma autenticamente umana. In queste opere si sente davvero, come ha scritto Marina Cvetaeva, che “dai corpi escono le schegge dell’anima”.
Questa progressiva scomparsa dell’umano è ben evidente nella terza serie di opere esposte per l’occasione, quelle città della desolazione e dell’alienazione in cui le case, perlopiù senza finestre, si accatastano in modi claustrofobici rivelando spesso la loro inabitabilità, quando l’artista scoperchia i tetti e svela scatole vuote. Non ci sono esseri umani come se un evento apocalittico li avesse cancellati dalla faccia della terra, lasciando quasi intatte le loro abitazioni collocate in città disumane, inquinate e soffocanti, in una condizione che oggi rispecchia completamente quella di tante metropoli internazionali. In qualche modo molti disagi mentali oggi nascono anche dal fatto di vivere in ambienti insalubri e alienanti, magari in periferie abbandonate a se stesse, nel degrado e nell’assenza di ogni speranza. La città può diventare una prigione e un incubo, come nelle peggiori distopie.
Senza dubbio Maurizio Romani potrebbe ben condividere, come ribadisce proprio questa mostra, quanto ha scritto Jarosław Suchan: “le opere d’arte possono agire come una sorta di crepa nel monolite dell’immagine che ci viene fornita come unica immagine possibile della nostra epoca. Un’opera d’arte può disturbare il modo consueto di vedere o pensare il mondo. Penso che il ruolo principale dell’arte sia cambiare la nostra mente, il modo in cui pensiamo e vediamo il mondo. Questo può essere l’inizio di un possibile cambiamento. C’è un enorme deficit di immaginazione, il nostro modo di pensare è oggi molto convenzionale. Ciò di cui abbiamo disperatamente bisogno adesso è il coraggio di andare oltre, di oltrepassare i limiti”. Nel loro complesso, questi tre cicli di opere ci danno l’impulso per una presa di coscienza volta a combattere due avversari pericolosi e sempre più pervasivi, l’oblio e l’indifferenza, che spesso sono strettamente legati, quasi osmoticamente. Come ha scritto T.W.Adorno, “l’oblio è disumano perché fa dimenticare la sofferenza accumulata: giacché la traccia della storia nelle cose, nelle parole, nei colori e nei suoni è sempre quella della passata sofferenza”. Del resto, anche l’indifferenza, la completa mancanza di empatia e la chiusura nel solipsismo più assoluto allontanano inevitabilmente dall’umanità più profonda, quella che oggi va protetta con cura e devozione, con gli artisti, poeti e scrittori in prima linea. Costoro dovrebbero essere la garanzia che gli esseri umani restino tali, con la salvaguardia e il potenziamento della sensibilità umana aggredita dal potere e dall’ossessione del profitto di una società rigidamente pragmatica. E di fronte a queste opere di Maurizio Romani torna alla mente quanto scrisse Albert Camus (Conferenza di Atene del 28 aprile 1955): “potremmo chiederci, e parlo sempre al condizionale, se proprio il singolare successo della civiltà occidentale nel suo aspetto scientifico non sia in parte responsabile del singolare fallimento morale di questa civiltà. Per dirla diversamente se, in un certo senso, la fiducia assoluta, cieca, nel potere della ragione razionalista, diciamo nella ragione cartesiana per semplificare le cose, perché è lei al centro del sapere contemporaneo, non sia responsabile in una certa misura del restringimento della sensibilità umana che ha potuto, […], portare poco alla volta a questo degrado dell’universo personale”.

Gabriele Simongini